Il dramma dei bambini dotati


In virtù dell’ideologia ‘new age’, epifenomeno culturale della globalizzazione, sembra che il mondo stia marciando verso un cambiamento epocale, destinato ad approdare al riconoscimento e al rispetto della diversita a tutti i livelli: dalle culture ai singoli individui. Non c’è molto di rassicurante in questa nuova ideologia che maschera un processo in atto di omologazione che tende ad estendere al pianeta intero il modello vincente della borghesia col suo stile di vita e le sue opzioni morali, politiche e culturali.

La necessità di abbattere tutte le barriere che hanno differenziato sinora i popoli e le civiltà tra di loro, estraniandoli e rendendo difficile il riconoscimento della reciproca dignità, sembra ispirata ad una sorta di ecumenismo messianico. In realtà non è che l’ultima tappa di un processo già lucidamente colto e stigmatizzato da Marx, reso necessario dalla constatazione dell’impermeabilità di alcune culture (in particolare quella islamica) al way of live occidentale, vale a dire al consumismo sfrenato su cui si fonda l’equilibrio del sistema capitalistico.

L’urgenza di un’integrazione tra culture e civiltà diverse, drammatizzata dai flussi migratori, viene avvalorata dai fautori del cosidetto ‘Nuovo Rinascimento’ come un salto di qualità nella storia che dovrebbe consentire, attraverso il confronto, di operare una fusione destinata a depurare ciascuna di esse dal peso di atavici pregiudizi. Il ‘Nuovo Rinascimento’ dovrebbe portare a termine il lavoro di superamento dell’etnocentrismo avviatosi con l’esplorazione del mondo cinquecentesca. Il riferimento storico è preoccupante perché già allora il salto di qualità dell’Occidente fu pagato, per esempio dagli Amerindi, al prezzo di una devastazione culturale e di un immane genocidio.

Se si prescinde infine da un intellettualismo di maniera, il problema urgente da affrontare, per quanto riguarda le culture e i sistemi sociali, non sembra tanto riconducibile all’apprezzamento reciproco della loro diversità quanto piuttosto al riconoscimento critico e definitivo di ciò che inesorabilmente le accomuna: l’essere tutte fondate sul dominio, religioso, economico, politico, ideologico dell’uomo sull’uomo. Sull’alienazione, insomma.

La civiltà occidentale, che ha promosso questo ecumenismo universale in nome della difesa e dell’affermazione dei diritti dell’uomo e del cittadino che, in essa, avrebbero trovato per la prima volta un riscontro giuridico e una pratica sociale, fondata sul liberalesimo democratico, presume perciò, senza alcun intento apparentemente egemonico, di potere svolgere un ruolo trainante verso la nuova frontiera della pacificazione e dell’integrazione mondiale. Il sospetto che questo ruolo tenda di fatto ad abbattere barriere culturali e sociali che impediscono al capitalismo, figlio spurio secondo alcuni, padre illegittimo secondo altri del liberalesimo democratico, di affermarsi su scala mondiale non è infondato. Ma si tratta indubbiamente di un sospetto ideologicamente connotato, che assume le ideologie come meri inganni che servono a coprire una realtà sociale determinata dalle dure (per alcuni) leggi dell’economia. Una più attenta riflessione sui rapporti tra infrastruttura e sovrastruttura non può, oggi, impedire di pensare che esse, pur correlate tra di loro, siano dotate di un qualche grado di autonomia, sicchè nulla vieterebbe di pensare che l’una potrebbe sopravvivere al venire meno dell’altra. Come è avvenuto per i regimi totalitari di destra del nostro secolo, che hanno sospeso i principi democratici ma praticato il capitalismo, così potrebbe sulla carta accadere, in prospettiva storica, che i diritti universali dell’uomo possano affermarsi anche indipendentemente dal capitalismo.

Tale possibilità è negata da coloro che, riconoscendo validi quei diritti solo per i singoli individui, la cui somma coinciderebbe con l’umanità, e comprendendo in essi la proprietà privata, e potenzialmente illimitata, ritengono impraticabile, essendo la proprietà privata espressione del libero mercato e il libero mercato espressione della democrazia, la loro realizzazione in difetto dell’uno e dell’altra.

I diritti dell’uomo e i diritti del cittadino, vale a dire dell’individuo, in realtà non sono la stessa cosa. I diritti dell’uomo sono diritti naturali che fanno capo all’essere l’uomo anzitutto un animale sociale. Essi dunque si estendono ad ogni membro della società in quanto riconosciuto come appartenente ad essa, e ad ogni membro della specie in quanto considerato avente pari dignità rispetto agli altri. Per quanto, come vedremo, l’individualità possa considerarsi una realtà che ha un fondamento biologico, genetico, non vi può essere dubbio riguardo al fatto che l’acquisizione dell’identità individuale avviene sulla base dell’appartenenza sociale e che la sua definizione, sia sotto il profilo psicologico che giuridico, dipende dal grado di integrazione e di coesione sociale, dalla cultura e dalla struttura sociale del gruppo cui appartiene. L’individuo dunque esiste come una potenzialità che si realizza in conseguenza del suo essere sociale, in virtù di un processo di socializzazione e di acculturazione che pone a sua disposizione le risorse economiche, culturali e affettive del gruppo cui appartiene.

La definizione atomizzata borghese dell’individuo, che lo assume come unità costitutiva della socialità, è una delle possibili definizioni. In virtù di essa i diritti dell’individuo, vale a dire i diritti un soggetto che viene identificato come distinto da tutti gli altri, che identifica se stesso come distinto da tutti gli altri e attribuisce a questo suo essere distinto un carattere primario, comportano, oltre che alla libertà e alla pari dignità, l’inesorabile riferimento alla proprietà, vale a dire l’autorizzazione a competere con il socius per appropriarsi egoisticamente del maggior numero disponibile di risorse economiche e culturali. Il diritto di proprietà è nella realtà un diritto di appropriazione di risorse sociali, quindi appartenenti a tutti, che non si dà se non in virtù di una legge, di un determinato sistema sociale e di una psicologia che porta l’individuo a sentire i suoi bisogni come bisogni privati, a misconoscere gli altri come depositari degli stessi bisogni e infine a viverli come rivali.

Si accetti comunque il principio per cui l’uomo, per natura animale sociale, diventa per cultura un individuo dotato di diritti suoi propri, e si riconosca preliminarmente in questo un’evoluzione della cultura umana che, dalle sue origini vincolate al primato del gruppo sull’individuo, è giunta a riconoscere e a dare spazio ad una verità inconfutabile scientificamente secondo la quale ogni uomo è geneticamente e psicologicamente unico e rirripetibile. Verità da cui discende immediatamente l’altra secondo la quale, posto che l’ambiente gli fornisca opportunità adeguate, è non solo giusto ma necessario che egli giunga ad acquisire un’identità distinta da tutti gli altri e che realizzi le sue potenzialità di sviluppo. Come non vedere in questo, nella diversificazione e nella realizzazione dei potenziali genetici e nella produzione di individui dotati di un’identità individuale specifica, un progresso netto, una rivoluzione antropologica di grande portata? Come ricusare il fatto che, se questa rivoluzione si è realizzata e si va realizzando su vasta scala, essa, promossa e resa possibile dallo sviluppo storico, riconosce e non può riconoscere che un fondamento genetico? Se occorre attribuire dunque alla natura umana un bisogno primario di socialità, occorre attribuire ad essa anche un bisogno, rimasto per lungo tempo latente o arginato, di individuazione. Per quanto squilibrata non poco dal rilievo eccessivo dato alla diversità individuale, che giunge quasi a rimuovere l’appartenenza sociale e l’inesorabile debito di appartenenza che ogni uomo contrae col mondo dei suoi simili (morti e viventi) per il fatto di giungere a distinguersi da essi e di sentirsi dotato di un’identità sua propria, la nostra società avrebbe infine portato a compimento un’opera, la rivelazione dell’uomo a se stesso nella sua doppia natura di essere sociale dotato di identità individuale, nella quale inconsapevolmente l’umanità si è impegnata da sempre. Rimarrebbe dunque solo da riequilibrare, socialmente, culturalmente e psicologicamente, i due aspetti. Il più risulterebbe fatto e ciò che rimane da fare è già abbozzato nella terza via che si profila come progetto del terzo millennio, alla fine del quale il mondo sarà il migliore dei mondi possibili: efficiente per merito dell’intraprendenza individuale, equo per il ricomporsi degli interessi particolari in quelli generali.

C’è un solo ostacolo che turba questa analisi trionfalistica. L’individuo a cui fanno riferimento, dall’epoca della Rivoluzione francese, le costituzioni occidentali è il cittadino. Una sfumatura semantica, si direbbe. L’individuo è l’ente biologico e psicologico che, riconosciuto appartenente ad una determinata società, assume lo status di cittadino. La cittadinanza è null’altro che l’attributo giuridico sotto il quale viene sussunto l’individuo. Le cose in realtà sono più complesse. Ammettendo, come sembra inevitabile fare alla luce della storia e della scienza, che ogni membro della specie umana venga al mondo con un potenziale genetico di individuazione, ciò che di fatto appare a livello di fenomenologia sociale non è l’individuo ma per l’appunto un cittadino, un essere la cui psicologia e il cui comportamento si conformano in qualche misura alle leggi, alle norme, ai valori, ai modi di sentire e di pensare della società cui appartiene. Il rilievo può apparire insignificante, ma riesce invece decisivo se si tiene conto che l’organizzazione di ogni società tende alla riproduzione antropologica, vale a dire alla riproduzione del cittadino non dell’individuo in senso proprio. La riproduzione antropologica, che corrisponde ai bisogni di coesione e di stabilità di ogni società, è di fatto una processo di normalizzazione incentrato sull’esigenza, che, all’interno della nostra civiltà può apparire paradossale, di riduzione della diversità genetica, di riconduzione verso la media dei potenziali di differenziazione che essa comporta.

Irretita dall’ideologia dell’individuo libero, autonomo e padrone di sè e del suo destino, atomizzato rispetto al sociale e pertanto affrancato dal giogo delle dipendenze, la nostra civiltà, a ben vedere, non è che formalmente meno repressiva di quelle che lo hanno preceduta in rapporto all’individuazione. Lo è in maniera diversa, più sottile, più fuorviante. Di ciò occorre fornire delle prove. Lo esige il buon gusto, che impone di non ricadere nel luogo comune del conformismo.

La prova che forniremo non è di ordine sociologico bensì psicologico. Riguarda gli esseri che vengono al mondo con un corredo iperdotato sotto il profilo emozionale e/o intellettivo, e quindi con un potenziale di individuazione più elevato rispetto alla media. Riguarda più in particolare la loro carriera di vita contrassegnata, sia pure in misura diversa a seconda delle circostanze ambientali, da un dramma che non di rado assume configurazioni psicopatologiche. Esseri che non hanno alcuna colpa di un corredo determinato dalla lotteria genetica, di un corredo peraltro nel quale sarebbe difficile a tavolino non riconoscere un valore, e che però pagano per questo fatto un qualche prezzo.

Il problema non è nuovo. Lo ha proposto anni fa una psicanalista inglese che si è vanamente battuta affinchè fosse non solo riconosciuto ma anche affrontato. Il riconoscimento, almeno in parte, è avvenuto, soprattutto negli Stati Uniti, laddove si è preso atto che vengono al mondo bambini con una marcia in più. Ma intanto tale riconoscimento si è limitato a considerare il livello intellettivo, e ha dato luogo ad una selezione che ha isolato dall’insieme i bambini-prodigio. In secondo luogo la risposta fornita al problema, funzionale alla logica del sistema più che a quella dei bambini, è consistita nell’inserirli in scuole speciali o nel programmare per essi corsi di apprendimento differenziati atti a promuovere lo sviluppo delle loro particolari potenzialità, vale a dire a sfruttarli, col consenso spesso entusiastico delle famiglie, per tentare di ricavare da loro futuri scienziati, managers, artisti, ecc. Il destino psicologico e sociale di questi bambini allevati come polli in batteria è sub-judice, ma non è azzardato prevedere che il successo di qualcuno di loro sarà pagato al prezzo della rovina dei più.

Occorre riproporre il problema aggiornandolo e argomentandolo. Utilizzerò a tal fine la mia esperienza di terapeuta di adolescenti e di adulti con un disagio psichico significativa nella misura in cui essa, obbligando a ricostruire la carriera di vita e la storia interiore dei soggetti, pone con una sorprendente frequenza di fronte a dati inequivocabilmente attestanti un’iperdotazione. Alcune esperienze terapeutiche con genitori adulti mi hanno fornito ulteriori dati, permettendo di definire, indipendentemente dal fatto di essere essi stessi iperdotati, il modo in cui talora leggevano e si rapportavano all’esperienza di un figlio diverso dagli altri. Non pochi spunti infine ho tratto dall’ essere stato consultato frequentemente da familiari di bambini difficili o disagiati bisognosi di consigli comportamentali, i cui resoconti fornivano talora degli indizi poco confutabili sull’appartenenza dei figli alla categoria degli iperdotati.

Per affrontare criticamente il problema occorre partire da lontano. Nel progettare qualunque forma di vita, vale a dire nell’esporre alla selezione naturale degli organismi mutati rispetto alle specie originarie e nell’assicurare la riproduzione di quelli risultati adatti, la natura segue fondamentalmente due principi. Per un verso, posto che una specie si differenzi dalle altre, essa cerca di conservarne geneticamente i caratteri differenziali. Questo è il motivo per cui due individui appartenenti alla stessa specie si somigliano tra loro più di quanto ciascuno possa somigliare ad un membro qualunque di un’altra specie. Per un altro verso, posta l’invarianza che potremmo definire strutturale della specie, che concerne sostanzialmente la morfologia, la natura (ponendo tra parentesi le mutazioni casuali) ama la diversità. Da questo punto di vista ogni membro di una specie è una variazione unica su un tema costante, al punto che non si danno, all’interno della specie, due membri morfologicamente identici. Ciò che è vero per la morfologia lo è a maggior ragione, almeno per quanto riguarda gli animali superiori, per il comportamento. Infatti, anche se il comportamento riconosce come innesco una dotazione istintuale comune, esso, nei moduli destinati a divenire abituali per il singolo membro, si definisce nell’interazione con l’ambiente, in virtù dell’apprendimento. Dato però che l’ambiente viene percepito, categorizzato e memorizzato in maniera diversa dai singoli membri di una specie, e che l’organizzazione comportamentale, nel corso del tempo, viene a dipendere sempre di più dalle memorie individuali, ogni animale finisce con l’interagire con un ‘suo’ mondo e con l’adottare criteri valutativi della situazione in cui si trova e moduli comportamentali suoi propri.

L’ominazione non ha modificato né l’uno né l’altro principio. Morfologicamente simili, gli uomini sono geneticamente (eccezion fatta per i gemelli monozigoti) diversi gli uni dagli altri, biologicamente unici e irripetibili. La diversità genetica è accentuata dal fatto che lo sviluppo cerebrale avviene sulla base di una programmazione che è più plastica, più aperta alle influenze ambientali rispetto a tutte le altre specie. Tale plasticità comporta che quello sviluppo determina il definirsi di reti neuronali e dendritiche dipendenti in qualche misura dall’ambiente esperito. Dato che non si danno due ambienti identici né due categorizzazioni identiche dello stesso ambiente, ciò comporta il fatto che ogni cervello è diverso, nella sua struttura, da ogni altro, persino nei gemelli omozigotici. L’individualità biologica ha dunque un fondamento genetico che viene ulteriormente, per così dire, rinforzato dall’esperienza interattiva del singolo e dà luogo ad una personalità unica e irripetibile.

Lo sviluppo dell’essere umano ha però una complessità molto maggiore rispetto a quello di ogni altra specie animale. Esso infatti comporta, oltre alla maturazione dell’organismo biologico, l’evoluzione di una personalità dotata di una soggettività autocosciente e, alla fine dell’evoluzione, di un suo specifico modo di sentire, di vedere e di agire, di un suo modo di essere e di porsi nel mondo. Tale evoluzione avviene sulla base di potenti legami affettivi con gli adulti in virtù di un’interazione con un ambiente culturale prodotto dall’uomo, e si realizza attraverso una maturazione emozionale e cognitiva.

Posto che, in rapporto alla plasticità del cervello umano, l’apprendimento svolge nell’evoluzione della personalità individuale un ruolo incomparabilmente maggiore rispetto a tutte le altre specie animali, c’è da chiedersi se tale evoluzione riconosca una qualche programmazione e se questa programmazione, comune a tutti gli uomini, preveda delle varianti individuali. Ad entrambi i quesiti la risposta, alla luce dei dati disponibili, è positiva.

La programmazione dell’evoluzione della personalità sembra funzionale al raggiungimento graduale di due obbiettivi: per un verso l’interiorizzazione dei valori culturali – linguistici, morali, religiosi, civili – propri del gruppo di appartenenza, che rappresentano la volontà altrui (in quanto prodotti e codificati da coloro che hanno preceduto l’educando); per un altro la definizione di una soggettivita autocosciente dotata di un certo grado di libertà, vale a dire di una volontà propria capace di operare scelte e di agire comportamenti consensuali o dissensuali rispetto a quei valori: in altri termini, di rispettarli, di trasgredirli o in una qualche misura di cambiarli. Per fare un esempio, si può pensare all’educazione religiosa che, nel nostro contesto, rappresenta comunemente una tappa obbligata dell’esperienza infantile. Data la soggezione dei bambini agli adulti e la loro predisposizione psicologica magica, i valori religiosi vengono inesorabilmente interiorizzati. Dall’adolescenza in poi, dacchè acquisisce un certo potere critico, un soggetto può confermarli integralmente, riconoscerli solo in parte o sostituirli con altri valori.

E’ evidente che tale programmazione corrisponde alla complessità dell’uomo, al suo essere l’unico animale sociale dotato di autoconsapevolezza, vale a dire della consapevolezza di avere un’identità individuale che lo distingue da tutti gli altri membri della specie. Nonostante alcuni psicologi ritengano che l’evoluzione della personalità avvenga sulla base dell’interazione interpersonale e dell’esperienza, postulando solo una predisposizione generica all’affettività e all’apprendimento, è più probabile che essa sia geneticamente programmata. Non si va forse lontano dal vero ammettendo che la programmazione si fondi su due bisogni (corrispondenti a livello psicobiologico agli istinti fisiologici), emozionalmente connotati, il cui dispiegamento fasico dà luogo all’integrazione dei valori cognitivi, che si potrebbero definire l’uno di appartenenza/integrazione sociale, l’altro di opposizione/individuazione.

Posta tale ipotesi, non vi può essere dubbio riguardo al fatto che tali bisogni siano rappresentati in ogni corredo genetico secondo una varietà di formule combinatorie che vanno da un estremo complementare all’altro. La distinzione junghiana dei tipi introversivi e estroversivi coglie sia pure in maniera semplificata, tale aspetto. Tenendo conto che la natura predilige l’equilibrio, si può pensare che in ogni popolazione la distribuzione delle formule combinatorie sia rappresentata da una curva gaussiana.

A ciò occorre aggiungere un altro dato di interesse. Il corredo genetico umano, oltre che i bisogni intrinseci, è caratterizzato da potenzialità emozionali e intellettive. Non sussistono dubbi sul fatto che anche queste potenzialità riconoscono tutte le combinazioni possibili e sono distribuite secondo una curva gaussiana. Il rapporto tra bisogni intrinseci e potenzialità emozionali e intellettive non è semplice da definire, anche perché il dispiegamento dei bisogni dipende dalle opportunità offerte dall’ambiente. Tenendo conto però che i bisogni rappresentano, nella loro componente innata, dei drives al tempo stesso emozionali e cognitivi, sembra necessario ammettere che la loro intensità è proprozionale al modo in cui essi sono rappresentati all’interno del singolo corredo genetico e che il loro dispiegamento è proporzionale alle potenzialità emozionali e intellettive individuali.

La natura dunque provvede a produrre, di generazione in generazione, corredi genetici estremamente diversificati, ciascuno dei quali ha determinate potenzialità di sviluppo il cui dispiegamento dipende in misura rilevante dall’interazione con l’ambiente. La distribuzione di tali corredi corrisponde probabilmente ad una curva gaussiana che riconosce agli estremi l’ipodotazione e l’iperdotazione e al centro la normodotazione. Il problema che qui ci interessa è la carriera di vita degli esseri iperdotati. Numerosi dati portano a pensare che questa categoria rappresenti una quota costante della popolazione infantile valutabile intorno al 2-3%. Non si tratta di una popolazione omogenea sia perché in essa sono rappresentate tutte le formule combinatorie dei bisogni intrinseci sia perché, al suo interno, si danno iperdotazioni emozionali e normodotazioni intellettive, iperdotazioni intellettive e normodotazioni emozionale e iperdotazioni emozionali e intellettive. Tale eterogeneità lascia pensare alle carriere di vita le più diverse. Ma c’è un dato che accomuna tutti i bambini iperdotati: tranne casi assolutamente eccezionali, dovute a configurazioni ambientali congiunturalmente, e talora casualmente favorevoli, essi pagano in misura più o meno rilevante dei prezzi per i loro privilegi naturali.

Tale dato trova un’immediata conferma nel fatto che, nonostante l’iperdotazione sia un fatto assolutamente minoritario, tra coloro che sviluppano un disagio psicologico tra i 14 e i 25 anni e hanno di conseguenza bisogno di un aiuto terapeutico gli iperdotati sono rappresentati in una misura estremamente rilevante, sicuramente superiore, e forse di gran lunga, al 50%. Ciò porta a chiedersi perché una potenziale ricchezza si traduce con così elevata frequenza in una almeno transitoria miseria.

La risposta immediata fa capo al fatto che le istituzioni pedagogiche, devolute alla riproduzione antropologica, assumono come modello i bisogni del bambino medio e hanno come obbiettivo univoco la produzione del cittadino medio. Sono insomma istituzioni normalizzanti, che tendono a ridurre, ai fini della coesione e dell’integrazione sociale, la diversità individuale, e con ciò inesorabilmente creano dei problemi ai bambini iperdotati. Articolare questa risposta in termini discorsivi non è però semplice.

Innanzitutto c’è da chiedersi se sia possibile definire in termini comportamentali la tipologia dei bambini iperdotati. Il riferimento all’introversione e all’estroversione risulta a tal fine prezioso, ma esso va integrato tenendo conto della distribuzione dei bisogni. Un intenso bisogno di appartenenza/integrazione sociale può essere rappresentato sia negli introversivi che negli estroversivi: nei primi esso ha però un carattere intensivo, nei secondi estensivo. Ugualmente il bisogno di opposizione/individuazione può essere rappresentato intensamente in entrambi: negli introversivi esso si esprime subordinando il comportamento alla riflessione, negli estroversivi privilegiando il comportamento spontaneo, apparentemente impulsivo. E’ evidente che la distribuzione complementare dei bisogni può accentuare l’una o l’altra caratteristica. Al limite estremo si danno bambini introversivi che hanno un bisogno di socialità molto ridotto e una precoce tendenza a raccogliersi con se stessi, e viceversa bambini estroversivi che hanno un bisogno estremo di socialità e un’ancora più marcata sete di libertà comportamentale.

Indipendentemente da queste tipologie estreme, i bambini iperdotati sono comunque bambini difficili da educare. La difficoltà è più evidente in quelli, siano essi introversivi o estroversivi, che hanno un forte orientamento oppositivo, e che di conseguenza, risultando molto poco adattivi alle influenze ambientali, creano agli educatori di continuo dei problemi. Ma, quand’anche non si rende evidente, essa si dà comunque, perché laddove il bisogno di appartenenza/intergrazione sociale promuove un’accondiscendenza nei confronti delle influenze ambientali non interiormente condivisa, questa è compensata da un disaccordo interiore destinato prima o poi a manifestarsi in qualche modo.

Analizzeremo ora le carriere stereotipiche dei bambini iperdotati secondo le tipologie illustrate al fine di porre in luce i momenti interattivi e le situazioni psicodinamiche che incidono di solito negativamente sull’evoluzione della personalità.

Un bambino iperdotato introversivo con un forte bisogno di appartenenza/integrazione sociale è un bambino d’oro che cresce apparentemente senza creare problemi, soddisfacendo in maniera ottimale le richieste dell’ambiente. Tale docilità è dovuta ad una capacità talora drammatica di registrare le aspettative, consce e inconsce, degli adulti e ad una sensibilità estrema, con una caratterizzazione tendenzialmente scrupolosa, che lo porta a drammatizzare sia la possibilità di ferirli, di deluderli o di dar loro dei dispiaceri sia il pericolo di perdere la loro stima e di subire dei rimproveri o delle punizioni. Nonostante il comportamento risulti costantemente adeguato e spesso ottimale, l’esperienza interiore è caratterizzata da una tensione continua rivolta a scongiurare la delusione e la perdita della stima che, quasi sempre, si traduce nel corso del tempo in una sorta di schiavitù perfezionistica. Nulla però traspare di questa tensione, sicchè gli educatori sono spesso indotti a pensare che il comportamento virtuoso del bambino sia del tutto spontaneo (insomma che non gli costi alcunchè), e, in conseguenza di ciò, ad elevare costantemente il regime delle loro richieste. Capita addirittura talora che la naturalezza del comportamento, attribuita a doti costituzionali più che ad un terribile sforzo, non venga perciò neppure adeguatamente gratificata. La presenza in famiglia di eventuali fratelli meno dotati o normalmente problematici realizza spesso l’effetto paradossale di indurre una sorta di disattenzione nei confronti del bambino dotato, al quale non si attribuiscono molti bisogni, e di dedicarsi all’altro o agli altri i cui progressi vengono sottolineati con grande rilievo. E’ incredibile in quale misura circostanze del genere determinino, nel bambino dotato impegnato a lottare con le unghie e con i denti per soddisfare le aspettative degli adulti, un vissuto di abbandono e di affidamento a se stesso.

La sensibilità comporta un altro rischio. L’educazione religiosa ha infatti sui bambini iperdotati un grande impatto emozionale che fa rientrare anche Dio nella categoria degli esseri le cui pretese vanno soddisfatte e il legame con il quale va preservato da ogni rottura dovuta al peccato. La scrupolosità già viva si esaspera in conseguenza del fatto che la categoria del peccato, secondo gli insegnamenti del catechismo, viene estesa sino a comprendere i pensieri e le fantasie.

La scolarizzazione porta quasi sempre alle estreme conseguenze un regime interiore perfezionistico, poiché, trattandosi di bambini solitamente di grande intelligenza, su di essi convergono in una spirale perversa le aspettative familiari e quelle degli insegnanti. Oltre ad elevare i livelli di ansia, l’esperienza scolare produce anche frequentemente dei problemi nei rapporti con i coetanei. In virtù di un assetto comportamentale più maturo rispetto alla media, di una più o meno spiccata soggezione all’autorità degli insegnanti, di un rendimento elevato (che spesso viene esibito stoltamente come esempio agli altri), i bambini in questione vengono quasi sempre perseguitati dai coetanei: presi in giro, ingiuriati gratuittamente e talora attaccati fisicamente. Il loro carattere docile e l’educazione impedisce loro di reagire adeguatamente. Questa ‘debolezza’ incrementa gli attacchi degli altri. Lo stesso spazio sociale dal quale il bambino ricava delle gratificazioni per il suo rendimento diventa uno spazio di tortura. Questa interazione dà luogo ad un isolamento progressivo animato dalla speranza di un intervento dell’autorità che faccia giustizia. Ma l’intervento non sopravviene quasi mai perché il rendimento scolastico, che rimane nonostante tutto elevato per l’angoscia che il bambino ha di perdere dei colpi, induce gli educatori a pensare che tutto vada per il meglio.

Nonostante il loro corredo, i bambini che appartengono a questa tipologia hanno una carriera interiore, del tutto impercettibile socialmente, molto dolorosa. Ciò è dovuto alla schiavitù perfezionistica, all’angoscia legata alla scrupolosità, al peso crescente e implacabile delle aspettative ambientali, a gratificazioni talora modeste e all’interazione conflittuale con i coetanei. Nonostante un buon carattere, tutte queste circostanze evocano progressivamente una rabbia, dovuta alla coercizione interiore e alle ingiustizie, che non viene mai espressa (almeno finchè non si defiisce un disagio psicologico) ma che raggiunge talora vertici estremi esitando in un odio indifferenziato contro tutto e contro tutti. Più spesso, contrastando con la sensibilità e i valori religiosi interiorizzati, questo odio è rimosso o viene represso e assume, a livello inconscio, la configurazione minacciosa di pulsioni amorali, asociali e vendicative. In questa configurazione rimane intrappolato quel tanto del bisogno di opposizione/individuazione che, sul piano comportamentale, non riesce mai ad esprimersi.

Nella migliore delle ipotesi, alla fine del periodo evolutivo, dunque i bambini appartenenti a questa tipologia si ritrovano con una personalità sdoppiata tra un falso sé, che li obbliga sul piano sociale a continuare a praticare tutte le virtù possibili e immaginabili, e un mondo interno ribollente di rabbie, di odi, di fantasie di vendetta e di anarchia.

Un bambino iperdotato introversivo con un forte bisogno di opposizione/individuazione ha una carriera solo in parte diversa dal precedente. Si tratta in genere di un bambino che, nonostante l’intensità delle emozioni, appare anche in famiglia piuttosto chiuso, poco comunicativo e precocemente incline a stare da solo. Non si tratta, almeno originariamente, di un atteggiamento problematico. Lo stare da solo si associa infatti spesso a una grande capacità di immaginazione e di riflessione che si riversa quasi sempre in giochi piuttosto originali, che anticipa la futura coltivazione di interessi fuori del comune.

Se viene lasciato andare per la sua strada, e assecondato con una partecipazione amorevole, un bambino del genere crescerebbe bene anche se con tempi di maturazione suoi, che sono fin troppo celeri per un verso e lenti per un altro. La lentezza concerne ovviamente la vita di relazione, che, al di là della cerchia familiare, viene desiderata poco, tardivamente e sempre sul registro intensivo. La tipologia in questione riguarda infatti bambini la cui ricchezza emozionale postula una sintonizzazione particolare per entrare in relazione. Purtroppo tale sintonizzazione, in conseguenza dell’apparente chiusura, si realizza di rado anche a livello familiare laddove tale chiusura viene assunta come espressione di un carattere freddo e poco affettuoso. A ciò occorre aggiungere che, se sul piano affettivo i bambini in questione sono di una riservatezza estrema, il bisogno di opposizione/individuazione, associato ad una viva intelligenza e a livelli cognitivi precoci, li rende spesso degli autentici rompiscatole. Non solo infatti pongono spesso perché di ogni genere, talora imbarazzanti, ma rifiutano visceralmente di fare i loro doveri, vale a dire di agire un comportamento conforme alle aspettative e ai codici educativi familiari, se il senso di quei doveri non viene loro spiegato per filo e per segno. Il loro bisogno di capire per agire viene quasi sempre deluso, perché, sottoposti alle domande, i genitori scoprono spesso che le regole proposte, per quanto essi le vivano come indispensabili ad una buona educazione, non sono di certo facili da spiegare. La risposta dunque si incentra quasi sempre sul rispetto dell’autorità, quando addirittura non si riduce alla tautologia per cui si fa così perché così si deve fare.

I bambini introversivi oppositivi non cedono però facilmente ai richiami autoritari, e ciò determina un grave disagio genitoriale che, in alcuni casi, dà luogo ad un disinvestimento affettivo nei confronti di un figlio che non è quello che si aspettavano, e, in altri, ad una vera e prorpia guerra orientata a piegare un’ostinazione nella quale viene letto il pericolo di una futura devianza. Per effetto di questa interazione, i rapporti interpersonali familiari spesso diventano tesi, formali e freddi.

Quasi sempre, per risolvere il problema della chiusura sociale, vissuto come un segno molto preoccupante, e per delegare a qualcun altro l’educazione di un bambino identificato come difficile, i genitori progettano il più rapidamente possibile un inserimento asilare. Ma l’esperienza risulta di solito catastrofica. Nei bambini introversivi dotati di un forte bisogno di opposizione/individuazione, il bisogno di socializzare con i coetanei viene avvertito tardivamente, intorno a 6-7 anni. L’inserimento in uno spazio istituzionale, casomai a tempo pieno, esponendoli ad un’interazione estensiva e vanificando la possibilità del raccoglimento con sé, viene vissuto come una violenza (e purtroppo lo è) e induce una sofferenza claustrofobica intollerabile. Se l’esperienza non viene interrotta dal sopravvenire di continue malattie e di sintomi psicosomatici, essa è destinata inesorabilmente a produrre un ulteriore isolamento, uno stato d’animo cupo e talora rabbioso, e un’insofferenza crescente per i coetanei. Purtroppo questi atteggiamenti vengono rilevati dagli insegnanti come espressivi di qualcosa che non va dal punto di vista psicologico. Più degli altri, i bambini appartenenti a questa tipologia sono esposti al rischio di un precoce stigma psichiatrico e vengono non di rado portati dallo psicologo. Il problema è che, sia i familiari che gli insegnanti e gli psicologi sono tutti attestati a difesa dell’ideologia della socializzazione precoce, per cui i rimedi proposti vertono quasi sempre su un’ulteriore dose di socializzazione, come per esempio la partecipazione a festicciole o, ad una certa età, la pratica di uno sport.

L’avvio della scolarizzazione elementare dà luogo a dei comportamenti diversificati all’interno di questa tipologia che dipendono dalle quote di rabbia accumulate in precedenza. Alcuni bambini scoprono quasi immediatamente che lo studio soddisfa profondamente il loro bisogno di raccoglimento e che, oltre a potere praticare un’attività gratificante solitaria, il rendimento elevato soddisfa le ansie genitoriali e riduce l’ossessione della socializzazione. Configurandosi però lo studio come l’unica attività da cui il bambino può ricavare un rimedio delle frustrazioni affettive, esso spesso diventa una trappola perfezionistica, che, se risolve parzialmente il problema con gli adulti, esaspera o inaugura quello con i coetanei. Il primato scolastico, associato ad un a persistente chiusura comunicativa che solo di rado si apre sul registro di un rapporto duale con l’amico del cuore finalmente trovato ( e che quasi sempre viene ostacolato) dà luogo anche in questi casi ad una più o meno dolorosa persecuzione. Già poco desiderata, la socialità si configura talora definitivamente come un incubo. Altri bambini viceversa, per quanto dotati, arrivano alla scuola elementare con un tale carico di rabbia e di frustrazione da manifestare, in conseguenza di un’opposizione inconscia, un rendimento basso se non addirittura deficitario. Ciò naturalmente peggiora la loro immagine agli occhi dei grandi che devono farsi carico di un ulteriore problema. Se se ne fanno carico personalmente, anziché affidare il bambino a dei ripetitori, le cose vanno di male in peggio, perché, essendo essi i referenti primari della rabbia che il figlio si porta dentro, i loro sforzi vengono frustrati da risposte che sembrano denotare un’incapacità intellettiva, le quali spesso danno luogo a reazioni esasperate e rabbiose, anche fisiche. Il circolo vizioso spesso induce anche nel bambino un’immagine di sé deficitaria e colpevole.

Comune a questa tipologia è una rabbia infinita che viene quasi sempre percepita coscientemente e si traduce spesso in un isolamento sprezzante nei confronti del mondo. I bambini che primeggiano a scuola di solito utilizzano lo studio (e, se riescono a non crollare prima, la professione) come un’arma di riscatto e di vendetta nei confronti degli altri, la cui umiliante inferiorità li rende intimamente soddisfatti. Il limite di questa impostazione di vita naturalmente è il terrore di potere essere scavalcati da qualcun altro. Terrore che riduce la vita ad una sotterranea, angosciosa, spietata competizione. Coloro che hanno una carriera scolastica mediocre, tirata a stento, tendono ad insabbiarsi precocemente sotto il carico delle rabbie, delle frustrazioni e dei sensi di colpa, tranne che non scoprano qualche attitudine particolare (di solito ne hanno) che permette loro di spiccare il volo.

I bambini estroversivi dotati di un intenso bisogno di appartenenza/integrazione sociale hanno una carriera di vita quasi sempre contrassegnata dallo stop and go, in conseguenza della necessità di armonizzare il loro vivo bisogno di socialità con un’esuberanza psicomotoria più o meno rilevante. Socievoli, socievolissimi, impegnano precocemente i genitori in un rapporto a tempo pieno non sempre gradito. Hanno un bisogno incoercibile di parlare e di conoscere che consente facilmente ai genitori di educarli, ma non altrettanto facilmente di quietarli. Fin da quando cominciano a deambulare manifestano, oltre a quello sociale, un bisogno esplorativo, un interesse per le cose, e soprattutto per come funzionano, che li trasforma in incolpevoli vandali. La loro sensibilità li rende peraltro estremamente recettivi nei confronti dei messaggi genitoriali, e si avvia di solito a questo livello l’esperienza dello stop and go in virtù del fatto che la spinta esplorativa viene periodicamente arginata dalla paura di dare dispiacere e dal sentirsi in colpa. Problemi a questo livello, destinati talvolta ad avere delle conseguenze incisive, sopravvengono solo quando l’esplorazione avviene in uno spazio di interazione conteso da una madre ossessionata dall’ordine e dalla pulizia. In tal caso di solito la necessità di mantenere un buon legame prevale, almeno in parte, sul bisogno esplorativo, ma il fatto di muoversi in un campo contrassegnato da una vera e propria gabbia di regole determina quasi sempre un orientamento claustrofobico.

L’atteggiamento esuberante viene di solito tollerato in nome del buon carattere, che li rende simpatici, bechè ingombranti. Ciononostante il turn-over cui sottopongono i genitori e spesso altri parenti chiamati in soccorso è, nonostante gli stop, estenuante, e provoca dei tentativi di contenimento che spesso risultano dei rimedi peggiori del male, accentuando sia l’irrequietezza psico-motoria che i sensi di colpa.

L’esuberanza peraltro crea problemi anche fuori casa, dove questi bambini vengono portati spesso per allentare la tensione domestica. Essi infatti, per un verso, manifestano un amore spiccato per il rischio motorio e una sorta di imprevidenza per gli infiniti pericoli che i genitori individuano nei giardini, in campagna, sulle spiagge; per un altro, rapportandosi agli altri, esibiscono un comportamento costante da leaders che può apparire facilmente prepotente e tradursi talvolta in eccessi di esuberanza fisica. Anche a questo livello la dinamica dello stop and go riesce assolutamente evidente. Capita infatti con facilità che i bambini appartenenti a questa tipologia possano involontariamente fare male agli altri. Ma quando ciò accade, la loro reazione è drammatica perché sviluppano sensi di colpa intensi nonostante la non intenzionalità del loro comportamento.

A molte famiglie, provate dall’impegno educativo nonostante un legame affettivo intenso (sottolineato dalla comprensibile tenerezza con cui guardano i figli quando dormono), l’avvento della scolarizzazione sembra una salvezza. Ma l’internamento istituzionale, se soddisfa un bisogno vivacissimo di socialità, mortifica un bisogno estremo di libertà e determina spesso una reazione claustrofobica. Anche in questi casi il pericolo che sopravvengono frequentemente malattie e sintomi psicosomatici che rendono necessaria l’interruzione è piuttosto elevato. Laddove l’inserimento si realizza, il comportamento sociale continua di solito ad essere contrassegnato da una tendenza spiccata a primeggiare fisicamente e verbalmente sugli altri e a correre imprevedibili rischi. Gli insegnati solitamente tendono a confrontarsi con comportamenti del genere sul registro della repressione. Ma, come accade in famiglia, anche alla scuola materna la repressione comporta una reazione paradossale che si traduce nell’incremento dell’irrequietezza motoria e dei sensi di colpa.

E’ quasi inevitabile che i bambini appartenenti a questa tipologia sviluppino, più o meno lentamente, un’immagine di sé sdoppiata tra l’intuizione della loro bontà di carattere e la consapevolezza dolorosa, confermata da infiniti eventi, di essere causa comunque di dispiaceri, di essere di peso, fastidiosi, e a tratti insopportabili. Il rapporto stesso con i coetanei conferma questa immagine, poiché si realizza sul registro di una costante ambivalenza impregnata di ammirazione e di invidia non meno che di fastidio e di periodiche rimostranze.

La scolarizzazione elementare non ha effetti univoci su i rappresentanti di questa tipologia. Se l’irrequietezza, in conseguenza delle repressioni, non ha raggiunto vertici critici, la buona intelligenza può consentire ad alcuni di loro di eccellere, anche in virtù di una facilità di parola fuori del comune. In questi casi, il rendimento scolastico induce a chiudere un occhio sulla persistente difficoltà di adeguare il comportamento alle regole istituzionali. In altri casi l’irrequietezza ostacola o impedisce l’apprendimento e, pur essendo compensata dalla socievolezza, determina dei risultati molto scarsi in conseguenza dei quali i bambini giungono a pensare di non avere grande attitudine per lo studio.

Un tratto tipico dei rappresentanti di questa tipologia è la smania di crescere e l’attrazione che su di essi esercitano i più grandi. A livello adolescenziale questo dà spesso luogo ad un repentino spostamento del bisogno di socialità dalla famiglia a individui o gruppi giovanili di età maggiore. Questo determina spesso vive preoccupazioni a livello familiare, nonostante il ‘tradimento’ non incida sull’affettività dei figli che anzi manifestano in questa fase un atteggiamento cameratesco nei loro confronti. La frequentazione di ragazzi più grandi, anche se molto raramente realizza i pericoli temuti dai genitori (in particolare ovviamente l’uso della droga), scongiurati da una sensibilità nei loro confronti che rimane viva, induce l’assunzione di atteggiamenti e la simulazione di comportamenti non adatti all’età. E’ a questo livello che incide il passato. Se esso non ha prodotto troppe frustrazioni e non ha interferito in misura rilevante sull’immagine interna, la esigenza di crescere si canalizza nel giro di alcuni anni. Se invece c’è alle spalle un carico di frustrazioni, di rabbie e di sensi di colpa, si entra invece in una fascia di pericolo poiché tale carico determina una vera e propria fobia riferita alla condizione che li ha prodotti, l’essere piccoli, e orienta i soggetti verso un modello di vita che, confondendo l’acqua sporca con il bambino, li cristallizza in un modo di essere adultomorfi che dà poco spazio alla loro sensibilità.

I bambini estroversivi dotati di un intenso bisogno di opposizione/individuazione corrono in genere pericoli piuttosto rilevanti per quanto concerne l’evoluzione della personalità. Più della tipologia precedente, con la quale condividono un elevato potenziale energetico esplorativo, essi infatti manifestano una precoce intolleranza per tutti i limiti opposti alla loro esuberanza. Non si tratta solo di un’esuberanza motoria che può creare problemi sia dentro che fuori casa, ma anche di un’esuberanza psichica. Come gli introversivi oppositivi, essi infatti non accettano alcuna regola se non sono convinti della sua fondatezza e non sono pienamente consapevoli del suo significato. A differenza di quelli però, che reagiscono di solito chiudendosi, essi reagiscono sfidando l’autorità, agendo negativisticamente e ingaggiando con essa battaglie anche molto aspre. Le conseguenze dipendono molto ovviamente dai genitori. Se essi cadono nella trappola della sfida e cercano di risolvere il problema con la forza, si pongono su di un terreno perdente per tutti. I bambini appartenenti infatti a questa tipologia non cedono di un palmo e talora giungono a farsi picchiare senza versare una lacrima, e promettendo di fare peggio.

Più di tutte le altre questa tipologia sembra caratterizzata, più che dall’esuberanza, da un senso di giustizia innato inevitabilmente destinato, per la sua astrattezza, a confliggere con le infinite situazioni interpersonali e sociali che possono essere facilmente decifrate come ingiuste o arbitrarie.

L’inserimento asilare non crea di solito, grossi problemi tranne che non si sia già radicalizzato un orientamento negativistico. Benchè il bisogno di socialità non sia particolarmente intenso i bambini estroversivi oppositivi riescono a legare con gli altri, e manifestano una spiccata attitudine a prendere le difese dei più deboli. L’esperienza asilare risulta di solito positiva poiché il sacrificio della libertà viene compensato dall’allentamento delle tensioni familiari e da uno spazio debolmente strutturato da regole.

La scolarizzazione elementare risulta invece più difficile. Data la necessità dell’ordine e della disciplina, il problema del rapporto con l’autorità si pone nuovamente, e di solito in maniera critica. Tranne infatti i casi piuttosto di insegnanti che riescono ad intuire le doti di questi bambini e a investirli di una stima che consente talora loro di rendere bene anche nello studio o di assumere comunque una funzione di leaders, quel rapporto è contrassegnato da una contestazione sistematica, implicita e esplicita, di tutte le regole e le circostanze interattive vissute come ingiuste, riguardino esse sé o gli altri. Questo atteggiamento provoca spesso una reazione repressiva da parte degli insegnanti e una reazione di fastidio anche da parte dei coetanei, che non gradiscono un comportamento che fa arrabbiare quelli e li rende nervosi con tutti. La codardia dei bambini medi rende peraltro i rappresentanti di questa tipologia sprezzanti nei loro confronti, e talora aggressivi.

Il sopravvenire dell’adolescenza esaspera tutte queste problematiche sia in famiglia che a scuola. In famiglia spesso si scatena un’autentica guerra con il genitore che, spaventato dalla possibilità di farsi mettere i piedi sopra dal figlio, lo affronta tentando di richiamarlo al rispetto dell’autorità di cui involontariamente abusa. La necessità del figlio di continuare a portare avanti le sue rivendicazioni che, per essere male espresse, sembrano a volte attestare una prepotenza aggressiva, coincide del resto quasi sempre con l’accumularsi di sensi di colpa imponenti. L’orgoglio degli estroversivi oppositivi non consente loro di dare spazio ai sensi di colpa, che vengono arginati con la rimozione o addirittura con la tendenza a fare peggio.

L’esperienza scolare, tranne rare eccezioni, assegna ai rappresentanti di questa tipologia una penosa maglia nera sul piano della condotta. E’ quasi inevitabile che, risultando disconfermativo sia il fronte familiare che quello scolare, i ragazzi tentino di riscattarsi sul piano della socialità spontanea con i coetanei. Essi di fatto si legano frequentemente con gli outsiders e manifestano nei loro confronti una sensibilità sorprendente. Talora sviluppano anche precocemente rapporti affettivi vissuti intensamente e che compensano le frustrazioni accumulate nel rapporto con i grandi. Accade anche talvolta che scoprano di avere spiccate attitudini per uno sport o per la musica o per attività manuali. Ma non di rado la carriera finisce, specie a livelli sociali poco abbienti, sul filo della devianza o al di là di esso.

Alla fine dell’età evolutiva i rappresentanti di questa tipologia hanno una struttura di personalità caratterizzata da un orientamento cosciente tendenzialmente ribelle e trasgressivo al quale corrispondono, a livello profondo, sensi di colpa piuttosto intensi, dovuti alla guerra ingaggiata col mondo grandi. Tornassero dietro non potrebbero fare diversamente, ma l’averlo dovuto fare non dà loro intimamente pace.

Per quanto stereotipiche, e dunque inevitabilmente generiche, le carriere descritte non sono lontane dalla realtà. Ciascuna di esse attesta in quale misura le istituzioni deputate alla riproduzione antropologica sono inadeguate a riconoscere la diversità degli esseri iperdotati e a concedere loro opportunità di sviluppo che non gli impongano di pagare l’ingiusto prezzo di colpe che non hanno. L’inadeguatezza delle istituzioni educative non è peraltro riconducibile alla responsabilità di singole persone, genitori, insegnanti, ecc., bensì al modello di riferimento – il cittadino borghese - che assumono e agli obbiettivi di normalizzazione ad esse assegnati. C’è una strada ancora molto lunga da percorrere per concedere a tutti gli uomini di sviluppare le loro potenzialità nella misura in cui esse trascendono quel modello. Molti peraltro sono a tal punto alienati da non desiderarlo neppure. Per alcuni però si tratta di una questione urgente da cui dipende il loro destino.

Ci si è fermati, nel ricostruire le carriere degli iperdotati, sulla soglia della psicopatologia alla quale, come s’è detto, pagano un tributo elevato. Al di qua della soglia per molti di loro il terribile – per dirla con Laing – è già accaduto. La scissione dei bisogni intrinseci ha determinato una matrice strutturale conflittuale alla quale solo, raramente, circostanze di vita del tutto positive possono impedire, dopo un periodo di latenza più o meno lungo, di fenominizzarsi psicopatologicamente. La frequenza con cui un corredo iperdotato incappa in un disagio psichico è a tal punto elevata da rendere necessario la messa tra parentesi del problema dei contesti d’interazione sociale. Lo spreco e il sacrificio di preziose risorse umane ha sempre matrici più profonde che investono la storia sociale.